Ducanfurgga, ovvero perché vado in mountain bike

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Spesso si perde di vista il vero motivo per cui si fa qualcosa. Per esempio, a me la bicicletta è sempre piaciuta molto, fin da bambino, perché mi permette di scoprire posti nuovi. Moltiplicando l’energia delle mie gambe tramite un sistema tanto semplice quanto geniale, la bici mi porta molto più lontano di quanto farei andando a piedi e mi permette di andare in posti inaccessibili ai mezzi motorizzati. Delle volte me lo dimentico e mi limito a percorrere i giri che conosco già, perdendo il senso dell’avventura e della scoperta.

Il nome Ducanfurgga non dirà niente a quasi tutti quelli che leggono questo articolo. Si tratta di un passo remoto nel canton Grigioni, in Svizzera, fra la valle dell’Albula e Davos. Per arrivarci bisogna percorrere 1700 metri di dislivello, di cui un buon 300 spingendo la bici su per una valle morenica dove non ho incontrato anima viva per ore. Niente campo per il cellulare, niente rifugi, l’ultima casetta disabitata era nel pianoro prima della salita su sentiero.

L’essere da solo risveglia tutti i sensi, d’altronde bisogna stare attenti a non farsi male cosa che, in salita, è piuttosto semplice da fare. Però si nota subito quando va via il sole e ci si muove nell’ombra degli innocui nuvoloni sopra la mia testa. Spunta un raggio di sole, e il mio umore cambia repentinemente, e con lui il coraggio, che aumenta.

Spingere la bici su per i bricchi non mi è mai piaciuto, dunque quando il sentiero torna ad essere pedalabile, in cima alla morena, mi ringalluzzisco, malgrado il cartello del passo sia un puntino lontano.

Per questo giro sono partito leggero, non prima di aver studiato bene le previsioni meteo: maglietta a maniche corte, bibshort Specialized con le tasche sulle gambe e sulla schiena, due barrette, due gel, una borraccia da mezzo litro piena d’acqua, che ho già riempito più volte alle fontane trovate sul percorso.

Attrezzi, camera d’aria, vermicelli e multitool sono nel telaio, insieme ad una falsamaglia.

Lo so che vado oltre i 2500 di quota, ma già ieri sono salito oltre i 2700 in maglietta e so che questa estate bollente me lo permette, se non arrivano temporali.

Proprio al passo mi vengono incontro due anime vive: una svizzera e un cileno che viene dalla Patagonia. Scambiamo quattro parole con il tipico entusiasmo che c’è quando incontri un umano in un posto solitario, dopodiché parto per la discesa infinita che mi porterà verso Davos.

Visto che non c’è campo, famiglia e amici dovranno aspettare a vedere le foto. Ammetto che la mancanza di internet mi rilassa.

Non sto qui a tediarvi con le meraviglie del sentiero, anche perché le ho descritte nell’itinerario che trovate qui.

Al momento, dopo 1700 metri di dislivello, ho fatto fuori una barretta e un gel, la metà delle mie provviste. Per fortuna che sono parsimonioso, perché alla fine della discesa inizia un sentiero infinito in salita, con tanti punti tecnici che richiedono tutte le mie forze. Chilometri e chilometri di singletrack, senza una fontana.

Non mi rimane che riempire la borraccia da un ruscello, male che vada alla sera avrò un po’ di squaraus (quando scrivo questo pezzo è sera e non ho squaraus, per la cronaca).

Visto che ci sono dei pedoni su questo sentiero, il comprensorio di Davos in alcuni punti ha addirittura costruito un sentiero per le bici e uno per chi ha la camica quadrettata.

Comincio ad essere stanco, ma trovo la motivazione quando incontro tre ebiker della Repubblica Ceca che pensano di seminarmi sui continui su e giù. Essendoci dei tratti tecnici, sto loro a ruota e poi li supero, per poi venire passato quando ci troviamo su una salita più lunga delle altre.

Alla fine del singletrack ci fermiamo a parlare (per quello so da dove vengono) e mi fanno pure i complimenti. Devo dire che non se la cavano male sulle Alpi, anche l’unica ragazza del gruppo tira delle belle linee.

Pensavo di essere quasi arrivato alla fine del giro, ma l’ennesimo sentiero infinito mi aspetta e mi porta in una gola in cui passa la famosa ferrovia retica. Non per niente questa zona è in alto nella lista dei posti da visitare per chi ama i treni e il modellismo.

Mi fermo a fotografare i viadotti, ma a dir la verità vorrei farvi vedere il singletrack, tutto una curva in un bosco di conifere che profuma come solo le conifere delle Alpi sanno fare.

Ed infine passo sotto al viadotto Landwasser. A questo punto so di essere quasi arrivato. Dopo oltre 7 ore, pause comprese, sono cotto ma soddisfatto come non lo ero da tempo.

E ho una fame bestiale.

 

Commenti

  1. simonillo:

    che posti e che giro stupendo! Sei riuscito a chiuderlo tutto con la batteria oppure alla fine hai dovuto farne a meno?
    Mi sa che le uniche batterie che aveva fossero quella del Garmin e cambio AXS ! Avrà avuto anche il cellulare ma come scritto in quelle zone non prende .
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  2. lollo72:

    Bellissima esperienza , personalmente non riuscirei ad affrontare una uscita così lunga senza lo zainetto da "Mr gadget" ed una sola borraccia da 500ml ; ho provato anche soluzioni con pantaloni e gilet "attrezzati" ma alla fine sudavo di più ed ero scomodo , meglio uno zainetto magari con dorso areato ; certo parlo da escursionista iperattrezzista a livello patologico di quelli che si portano dietro anche la pompetta ad alta pressione per tarare le sospensioni !
    si la stessa cosa che ho pensato io quando ho letto l'articolo. un giro così avrei come minimo portato uno zainetto con dentro seconda borraccia e qualche barretta in più e magari un impermeabile (per quanto siano accurate le previsioni meteo possono sempre sbagliarsi).. alla fine PER COME SONO FATTO IO meglio 1-2 kg in più ma essere un pò più tranquillo mentalmente.. anche memore di brutte avventure passate..

    poi se posso tranquillizzarvi il cellulare quando non prende in realtà non è detto che non prenda quando si chiamano numeri d'emergenza in cui la potenza dell'antenna aumenta mi sembra di 10 se non 100 volte.

    comunque bellissimo racconto! ne vogliamo altri!
  3. marco:

    "Spingere la bici su per i bricchi non mi è mai piaciuto, dunque quando il sentiero torna ad essere pedalabile, in cima alla morena, mi ringalluzzisco, malgrado il cartello del passo sia un puntino lontano."
    Credo che spingere (e anche portare) la bici in alta montagna sia quasi imprescindibile per fare certi giri "epici". L'importante è mettersi nella condizione mentale che la spinta fa parte dell'avventura e in qualche caso è la "chiave" del giro memorabile, e perché no, riservato a pochi.
    È un uscire dalla "confort zone" che aggiunge valore all'esperienza, come ogni volta che si supera se stessi e si viene ripagati da una grande soddisfazione! :yeah!:
    Alla fine quando ti cheidono se hai spinto o portato, quasi non ti ricordi... ma ricordi benissimo che l'esperienza è stata una figata pazzesca! :-?:
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